invernale profumo, le coloriva le guance, donn’Angelica ascoltava la conversazione fra suo marito e Francesco Sangiorgio.
Essi parlavano di politica, da un’ora: in verità, era piuttosto don Silvio Vargas che ne parlava, un po’ arrovesciato nella sua poltroncina, fumando un pestilenziale sigaro toscano, guardando i delicati fiori dipinti sul soffitto grigio chiaro del salottino. Ne parlava con la sua secca voce fischiarne, a sussulti, a frasi spezzate, sbuffando fumo, tirandosi ogni tanto il mustacchio rimasto rado malgrado la vecchiaia, rimasto castagnino come i capelli, malgrado gli anni. L’età non si vedeva in quel vecchio magro che nelle rughe finissime all’angolo dell’occhio, un ventaglio che si allargava verso le tempie; in due rughe profonde, agli angoli delle labbra, che il sorriso vi scavava: nella durezza di tutta la fisonomia diventata quasi lignea; nel collo scarno, dove i tendini si movevano come corda di strumento. Ma del resto era forte e robusto nella sua magrezza, come quei legni di quercia che s’induriscono per tanti anni nell’acqua prima di poter essere adoperati: e quando conficcava sotto l’arco sopracciliare destro la lente rotonda, senza
Serao — La Conquista di Roma |
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