Pagina:Serao - La mano tagliata, Firenze, Salani, 1912.djvu/82

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76 la mano tagliata.


troppo tempo egli aveva passato, solo, silenzioso, nella contemplazione di quella mano gli pareva di vedere la bellissima giovane, pallida, dai capelli nerissimi, dalla bocca rossa e carnosa, dalla fronte breve di Dea, avvolta in un classico vestito bianco, a grandi pieghe, che nascondesse il braccio troncato, mentre l’altra mano, la compagna, la sorella, esciva da quel biancore, seducente e tenue come un petalo di fiore.

Ogni tanto, però, Roberto Alimena usciva da queste sue visioni assorbenti e ridiventava l’uomo pratico, scettico, gelido, che era ordinariamente: in quei momenti gli pareva utile ricercare il gobbo dagli occhi verdi, il presunto proprietario del cofanetto; gli sembrava necessario portare alla Questura — non al Municipio, trattandosi di un oggetto eccezionale — quella singolare scatola, di sapere, infine, di conoscere un po’ di verità: o, almeno, di liberarsi da quell’imbarazzante e talvolta tormentoso deposito. Fu in uno di questi minuti di ritorno in sè stesso, che deliberò di portare la mano tagliata dal professore Silvio Amati.

Silvio Amati era uno scienziato di prim’ordine, un chimico e un anatomista superiore che, dalla natìa Napoli, aveva portato nella Università di Roma tutta la sua profonda dottrina. Ma il suo valore d’insegnante, sebbene molto grande, era, certo, inferiore alla sua immensa capacità di esperimentatore. Stimato in tutta l’Europa, in corrispondenza coi maggiori scienziati europei, eppure spirito raccolto e solitario. Silvio Amati viveva senza famiglia, senza amori, senza legami, tutto immerso nei suoi studî, nelle sue analisi, nei suoi esperimenti. Era uno strano tipo di scienziato e di uomo, scarno, alto, con una fronte alta e sguarnita alle tempie, con un arco sopracciliare profondo come un tetto, come è quello di Darwin, con un mustacchio già quasi bianco a cinquant’anni