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e una espressione vaga negli occhi abituati a fissare il mondo attraverso il microscopio. Egli era stato amico d’infanzia col padre di Roberto Alimena; e, ogni tanto, il giovanotto andava a fargli una visita, in quella villa Strohl-Fern, accanto a villa Borghese, dove egli occupava tutto un caseggiato separato, tra i folti alberi del giardino. Le finestre del suo ampio laboratorio davano sui colli Parioli e di lontano si vedeva il Tevere libero e triste della campagna romana.

Del resto, niuno entrava mai nel laboratorio di Amati, salvo due suoi muti aiutanti, giovani valorosi, che si avviavano, con ardore di discepoli, alla medesima adorazione della scienza del loro maestro. Egli riceveva tutti nel suo studio, un altro salone che dava sul parco Fern e più ameno, malgrado la farraggine dei libri e delle carte che lo ingombrava.

Quella mattina di febbraio, prima di avviarsi da Silvio Amati, col cassettino, Roberto Alimena esitò. Faceva bene a confidare quel segreto? Doveva mostrare quella mano? E le spie che lo sorvegliavano, non lo avrebbero veduto uscire, con quella scatola? E se gli accadeva qualche cosa? Ma, subito, il bisogno di apprendere qualche cosa di preciso sulla mano ingemmata, lo vinse. Fece venire una carrozza chiusa e la fece entrare nel cortile dell’Hôtel d’Europe. Non vi era nessuno, a quell’ora. Discese i due gradini, nascondendo sotto la pelliccia il cofanetto e si serrò subito in carrozza, dando l’indirizzo di Silvio. Ma, durante tutto il tragitto, dei ragazzetti cenciosi galopparono dietro la carrozza e si attaccarono alle balestre, malgrado le frustate irose del cocchiere; due o tre ingombri di vetture fecero fermare la carrozza e Roberto Alimena scorse dei viandanti, uomini, donne, che davano delle occhiate, di dietro ai cristalli. Egli un po’ inquieto, fu felice quando la car-