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alfredo panzini 147

le cantilene tutti insieme fanno armonia, in questo ardor di passione che quasi è per prorompere al canto e si rompe in aspre parole semplici, io sento il Panzini. Forse la sua anima gentile allo stesso modo alcuna volta rimpiange la poesia, a cui si sentiva nata e che lui creduto di perdere.

Non credo io già che l’abbia perduta. Il lume puro di lei risplende sulla fronte dello scrittore e la rischiara. Tutte le parti della sua vita, e persona alquanto umile, della intelligenza sana ma non altissima, della letteratura buona ma non squisita, della osservazione e rappresentazione nitida ma non potente, della arguzia spontanea ma un poco scarsa, ne prendono qualità: che scorre lietamente per le pagine della sua prosa onesta, e rende a loro aurea bontà onde son care fra quante altre ne porti più rumorose la stagione letteraria.

Che importa se pochi le conoscano, e se la fama e l’eco della critica1 meno secondi? La loro bontà è dentro e non ha bisogno di essere gonfiata da fiato alieno: io penso che Alfredo Panzini di quella sia contento, e sì della fortuna che gli ha consentito di ritrarre se stesso e il dramma vario della sua vita e la Romagna che egli ama e le cose e le gioie e i dolori del mondo, con una così schietta e durabile umanità.


  1. Di critica vera e propria io ricordo il saggio, nella Voce di Firenze, di un giovine assai animoso, Emilio Cecchi. Era quello un tentativo dì valutazione sistematica dell’arte del Panzini e del suo mondo spirituale e del suo luogo nel nostro clima storico, che a me parve elevato e acuto nell’intenzione; ma rispetto al Panzini proprio e alla qualità del suo scrivere, non so se dicesse tutto.