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162 | scritti di renato serra |
plare più candido di essa era da guardare in Severino.
Veniva dunque a Bologna in quegli anni questo «mezzo tra bolognese e romagnolo e ferrarese», «rivierasco della bella pianura che giace fra gli alti argini del Reno».
Veniva dal paesetto sull’argine, dall’Alberino; figliuolo di un medico, con l’ingegno fino e la forma un po’ rustica; era buono, tenero, gaio, un po’ fantastico, disposto ad amare con semplicità. Non aveva, credo, studi molto notabili nè ambizioni grandi; poteva avere qualche venerazione per la poesia e per l’arte di scrivere, come portava la nostra educazione un poco provinciale allora; e istinti democratici, com’era della gioventù. A Bologna trovò il Carducci. Il quale, dopo avere scritto i versi per l’anniversario dell’VIII agosto in Bologna, si preparava a scrivere il Clitumno: credo che se a Severino si fosse domandato di dire dei nomi per simbolo, avrebbe scelto questi.
E insegnava all’Università. Insegnava, dalla cattedra, nei versi, con tutto se stesso che la più alta cosa del mondo è la poesia: la poesia d’Italia.
Poesia che voleva essere intesa non solo nell’effusione dell’anima, ma sopra tutto nell’effetto della storia; come opera, condotta con lunga fatica e studio eccellente, da quegli uomini che ne sono rimasti maestri; opera di arte e di tecnica, ma anche di civiltà e di umanità, monumento e momento di tutto il vivere civile della nostra razza, e insegnamento della sua virtù; della italianità, della libertà, del diritto che si esprime nell’altezza aristocratica dell’ingegno, ma sorge e freme nella fibra robusta del popolo.