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severino ferrari 163


Tale essendo il mondo, diciamo così, del Carducci; le sue leggi supreme poi erano da una parte il culto della poesia effettiva, esercitato col rispetto e con lo studio particolare e paziente dell’opera e della tecnica dei grandi; dall’altra l’entusiasmo per la civiltà latina e per tutto quello che emanava da essa, popolo, libertà, sincerità, verità.

Severino accettò questo mondo, con queste leggi, e ne fece la ragione della propria vita. Le osservò con serietà profonda, fino all’ultimo; non uscì mai da quei termini, che per lui valevano quasi come una religione. E volle restar fedele a quel mondo della sua gioventù con una interezza commovente; anche a costo di non seguire il maestro.

Voi sapete che il Carducci rinnovò, spostò, almeno nell’apparenza, alcuni di quei termini; conciliò con la libertà e con la italianità la monarchia; ma Severino restò fedele alla «santa canaglia»!

E mentre il Carducci commemorava Verdi o scriveva alla contessa Pasolini, con la malinconia dei dubbi supremi, Severino rileggeva agli scolari l’ode Alla chiesa di Polenta, e si fermava a un verso:

roseo il tramonto ne l’azzurro sfuma.

E sospirava con tutto il suo cuore gonfio della antica religione, e diceva:

Quando il poeta fa di questa roba.... il poeta è dio.

Oltre questo segno non andava. Soltanto era triste allora, e scrollava la sua stanca testa grigia, che aveva eretto un tempo con tanta gaiezza di gioventù e speranza di versi.