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190 | scritti di renato serra |
che è la bocca dell’uomo, ne svilupperà molto naturalmente ogni effetto — «la tenne in bocca e tenendola» (egli insiste riprendendo e voltolando le sue parole come le pallottole con la lingua) «cominciò a gittar le lagrime, che parevan nocciuole, si eran grosse»: il lettore si ferma a pensare se il Boccaccio abbia inteso più a quel senso delle lagrime, così riccamente sgorganti dalla stessa successione delle posizioni, che una incalza l’altra; o più forse al sorriso, onde invita gli uditori a guardare come eran grosse e ridevoli; ma niuno ha tempo di rispondere, che già egli è trascorso, «et ultimamente, non potendo più» (sentite le pause, di momento in momento, del dicitore che è sicuro del suo successo?) «la gittò fuori, come la prima aveva fatto».
Pare che la penna abbia dato l’ultimo tocco volubile, per sua grazia, prima di staccarsi. Anche la penna malvagia del glossatore si vergogna di continuare.
È tempo di tornare al D’Annunzio.
«Il pover’uomo la prese; e, sentendo sopra di sè fissi gli occhi maligni e acuti del capraro, fece un supremo sforzo per sostener l’amarezza; non masticò, non inghiotti; stette con la lingua immobile contro i denti. Ma, come al calore dell’alito e all’umidore della saliva, l’aloe si discioglieva, egli non poteva più reggere; le labbra gli si torsero come dianzi; il naso gli si empì di lacrime; e certe gocciole grosse gli cominciarono a sgorgare dal cavo degli occhi e a rimbalzar, come perle scaramazze, giù per le gote. Alfine, sputò».
Il pezzo è superbo. E se lo consideri parte a parte tu trovi una precisione di senso fisico, realizzato ed espresso in ogni sillaba del linguaggio