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«la fattura» 191

magnifico, con una virtù di cui è difficile ricordare l’eguale.

Eppure del tutto insieme l’impressione è fredda. A cercar bene si trova qualche punto in cui il vago fastidio prende corpo. Ci sono dei particolari, che si vorrebbero dir belli ognuno per sè, ma nell’effetto riescono oziosi.

Quei due aggettivi che consolano gli occhi del capraro, non sono già oziosi; ma somigliano un poco all’erre del sostantivo: si sente che basterebbe anche un semplice capraio. Ed è pur giusto che lo sforzo sia supremo, ed è pur proprio l’uso del sostenere, ripreso dalla lingua antica. La ragione approva, ma l’orecchio si offende un poco. Poi un raggio di luce pare che venga da quella citazione così fredda, come dianzi; essa rivela quasi un lavoro ozioso di compositore, che alcuna volta si stanca. Allora si capisce che tutto il pezzo non è nato da un bel movimento solo, come corrente che nel fluire s’accresce. Ma tutte le parti qui sono staccate, lavorate a freddo, con artificio che sarebbe bellissimo se non fosse così monotono.

Lo stile, anche a guardare retoricamente, è povero di figure: le proposizioni hanno quasi uno schema identico, e si seguono in fila come cose rigide. Considerate i verbi: prese..., fece, masticò, inghiottì, stette, ritorsero, riempì, cominciarono, sputò....

Il gesto, se così posso dire, dell’azione, è fermato in un tipo immutabile.

Diremo che questa immutabilità sia naturale aspetto delle immagini, che si accampano tutte su un piano e quasi in un atto solo?

Ma se leggete bene, anche le cadenze hanno la stessa monotonia: calore dell’alito, umidore della