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«la fattura» 193

Egli si ferma, prima di parlare, con una gravità di sacerdote che inizia il rito.

O Derbe, la potenza che desidero
è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.

Ma tutto questo non sarebbe spaventevole in lui, se non fosse anche ingenuo. Egli si dimostra convinto di compiere, con una descrizione, un gesto essenziale nella vita dell’universo. «Finsi in me stesso l’impossibile brivido». Questo cominciamento è preso sul serio; ed egli poi seguita a dispensare il suo tesoro con serietà inesorabile.

Tutti i luoghi comuni, tutti i pregiudizi e le vanità e le miserie insieme degli uomini e dei letterati, sono la proprietà naturale e gelosa di lui: la sua anima non è diversa da quella di uno scolaro, molto bravo, molto ambizioso e infinitamente vano.

Che cos’è questa Fattura, per esempio, se non la esercitazione di uno scolaro prodigioso?

Uomini discreti vi possono ammirare delizie e doni rari della natura; ma il loro uso è meccanico, rivolto allo sfoggio e alla lode. L’ammirazione dei particolari resta staccata e dispersa; e alla fine si risolve quasi in fastidio.

Egli siedeva al suo tavolino stillando superbamente le superbe parole. Nè meno un dubbio o un sospetto gli attraversava la via della perfezione. La sua anima e la sua prosa preziosa non conoscono il travaglio che è il principio primo della vita.

Così egli rifaceva il Boccaccio e il Maupassant, solennemente.

Noi lo sentiamo cominciare, indugiando con amore intorno alla figura del nuovo Calandrino e ai suoi sette starnuti.