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340 scritti di renato serra

si direbbe che quella certa servitù della parola e del particolare, che l’ha sempre legato, unita a una sincera e pure alquanto fiacca e corriva preoccupazione moralistico-religiosa (non è carattere solo di lui, ma di altri spiriti, in cui la serietà e il turbamento morale diventa sprezzatura e complicazione in apparenza della forma artistica, quasi dispensata da ogni convenzionalismo, portata all’estremo della personalità; e in fondo poi è quasi pigrizia e retorica e imitazione, in quel gruppo di liguri, mi pare, che è rappresentato con più singolarità di intelligenza e disuguaglianza dal Boine), lo abbia trascinato a falsificare Claudel, che egli ha tradotto e quasi portato in Italia, con un’enfasi non meno inconsapevole che angusta, in cui la sua personalità si è strozzata.

Tanto abbondante e rumoroso e sfacciato nella stia produzione, per quanto Jahier è stentato e nascosto, appare invece Papini. Del quale si può parlare quanto si voglia in tutti i sensi; ma una cosa resta pur certa, che l’Uomo finito è uno dei libri più notevoli dell’ultima stagione letteraria: non si dice che è un bel libro, solo perchè è di Papini.

Qui non è luogo di ritrarre interamente la figura bizzarra di questo vecchio precoce e falso giovane eterno; che aveva esaurito a diciott’anni tutte le capacità intellettuali e inventive di un uomo e conserva a trenta l’impertinenza la petulanza e il mimetismo degli adolescenti piò acidi: che sarebbe così antipatico nella sua monotonia clamorosa se non si pensasse che è stato mandato apposta dagli dèi per mistificare il volgo dei professori e dei letterati d’Italia, aspettando di finire imbalsamato con tutti gli onori in un capitolo della nostra futura kulturgeschichte, che po-