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le lettere | 389 |
cora leggere i libri per consolarsi e per farsi migliori, continuando in sè e nei vicini quella silenziosa religione, fatta di pudore e di forza, di sanità e di studio affezionato delle belle grandi cose dell’ingegno umano, che è sempre stata una delle saluti più vere della nostra Italia.
Ma non sono discorsi da cronisti. Al più potremo ricordare, tra i professori, l’ultimo scolaro del Carducci, l’unico che ne rappresenti nella scuola e con la persona l’esempio di letterato come tecnico e competente, in ciò che la tradizione, come si suol dire, ha di castigato e squisito, solido e secco; e in ciò che l’osservazione e lo studio e la pratica dei grandi può dare di mordente al giudizio e di abilità alla mano; l’Albini insomma. Il quale non ha fatto molto in verità, anche mettendo da parte l’ambizione del nostro secolo geniale; qualche studio preciso, dei versi e dei dialoghi eleganti, qualche pagina accademicamente saporita e perfetta: eppure non si può pensare a lui, come non si pensava all’Acri, senza un senso quasi di vergogna, da scolari a maestro, almeno per tutte le piccole cose che uno come lui sa naturalmente, e noi non sappiamo, e pur ne parliamo come se le sapessimo.
La nostra gente è oggi, per rimanere nei termini del titolo, assai meglio critica che letterata.
Con questo non si vuol dare nessun giudizio definitivo. Come in tutti i cambiamenti, c’è perdita e guadagno.
E se a noi, in questo momento in cui ci guardiamo intorno, hanno dato nell’occhio prima certi caratteri di insufficienza e di antipatia che sono nel lavoro di codesta critica, non vorremo dimenticarne però certe note di esigenza più profonda e altre quasi conquiste di libertà spirituale, che