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420 | scritti di renato serra |
la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d'aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perchè bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili.
Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore.
Può esserci anche qualche cosa di vero, finchè si resta per quelle strade, fra quelle case.
Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l'uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perchè: se venga l’ora.
Può darsi che non venga mai. È tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!
Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi,