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Pagina:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu/56

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giovanni pascoli 9

altro ancora, se un poco ci abbandoniamo alla dolcezza del ricordare!

Notate cosa, che pare strana, ma che, se ci pensate bene, è la più naturale del mondo. Noi non avremmo finito così presto di enumerare il tesoro di cose e di sensazioni che egli ci ha donato; ma, in quanto a versi di lui, pare che non ne sapremmo citare molti. I suoi versi non si citano; non passano in proverbio. Sebbene non sia difficile mandarli alla memoria; ma come facilmente e naturalmente ivi si stampano, così si dileguano; e sopra tutto è difficile che vengano spontanei sulla bocca: è difficile citarli. Si cita, se mai, qualche ritornello, qualche bizzarria: uno solo è venuto in fama («Romagna solatia, dolce paese....»), che veramente è un bello e dolce verso: ma esso dà al pubblico, che ha bisogno di mettere a posto le sue conoscenze, quasi la fede di nascita del poeta; e D’Annunzio lo cantava, come tutti sanno, entrando, cavalleggero ventenne, le nostre terre; e poi, ci deve entrare il Passatore!

Il fatto è che il Pascoli non ci ha dato mai uno di quei versi perfetti, rilevati e scolpiti e compiuti, che si impongono allo spirito come una cosa definitiva, e che sono la propria ricchezza dei classici.

E se noi, richiesti, dovessimo offrire in uno o pochi versi rappresentata quasi in iscorcio la virtù propria di lui, ci rifiuteremmo; per quanti ce ne potessero passare innanzi, sappiamo bene che di nessuno saremmo contenti a pieno. Anzi, dicendone o mostrandone ad altri, mi par che sempre si senta il bisogno di soggiungere a ogni tratto: A questo non badar troppo, non ti fermare su quel particolare; che il poeta non è lì.

A che torna in fine anche questo discorso, se