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viii | coscienza letteraria di renato serra |
ma egli aveva bisogno di oziare a suo modo, intrattenervisi con quella sua presenza da signore svogliato che degnasse ogni tanto di dir la sua, toccasse o no il tasto vero dell’arte; e se non lo toccava, che si pazientasse. Quello intanto che diceva, era bello, detto con sapiente grazia, da un prediletto delle muse, da una intelligenza rara. Prima di tutto questo si sentiva: che era un’intelligenza rara, superiore tanto alle cose che diceva.
Superiore era anche a tutti quei crociani infesti di cui provava sì forte il fastidio, menti appena dirozzate sotto il potente impulso del Croce, nudi di lettere, nudi di letture (ce ne sono ancora), oltraggiosamente sicuri di sè. Serra doveva sorriderne, lui così sottilmente chiamato a dubitare e a distinguere, come d’un barbaro portento. E Croce, dalla sua parte, ogni tanto faceva viaggio a Cesena per conversare con Serra.
Da una natura così fatta, già potentemente chiara a se stessa, vedete se si poteva cavarne il tipo del crociano. E Serra poi sapeva per certo essere il Croce di tale apertura («con lui si può parlare di tutto», «la sua intelligenza non rifiuta nulla del mondo»), da capire come e perchè, nel caso suo, proprio non se ne potesse fare un discepolo, uno scolaro sia pure indocile. Egli godette, vorrei dire, degli acquisti del Croce come d’un superbo spettacolo; per ciò ch’essi potevano valere come testimonio d’un ingegno e d’un lavoro grande. Ma nel leggere e nel giudicare, per suo conto, portò altro criterio, quello che aveva appreso non, tanto, alla scuola del Carducci, quanto col cotidiano studio delle sue opere, dietro quella guida rifacendo il corso delle proprie letture, affinando il gusto, assottigliando l’acume