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XIV

Il processo.

Il ministro di polizia era lieto come di una grande scoperta, e scrisse agli altri governi italiani, e specialmente all’Austria, che egli aveva messo le mani addosso alla giovine Italia e che sperava di afferrare tutte le fila della famosa setta. Ma come vide che da noi non poteva saper nulla, disse al commessario inquisitore di andare lento nell’istruzione del processo, poiché l’importante era scoprire molti, e se noi avevamo taciuto, qualche altro avrebbe parlato. «Quei signori poi lasciateli maturar sottochiave, e non li tormentate, ché infine essi per quelle denunzie e quelle carte saranno certamente condannati a la galera due volte». Queste parole furono raccolte da persona che le udí dal commessario, e a me vennero scritte nella bottiglia. Ecco perché noi non avemmo tormenti, e il processo fu lungo. I quattro giovani trovati in casa Musolino furono liberati dopo pochi mesi, ma sottoposti a severa vigilanza col disegno di coglierli in qualche fatto.

Intanto non era possibile parlare a lungo tenendo un orecchio attaccato a la parete, e potevamo essere uditi da chi avesse origliato a la porta. Io pensai d’inventare una lingua, di scrivere un centinaio di parole strane le quali significassero le cose principali che volevamo dire, e non fossero intese da nessuno. E le scrissi: ma il difficile era dare lo scritto a Pasquale. Questi subito trovò il mezzo. Le nostre finestre non avevano vetri, ma due tele di canape: egli ne tolse alquanti fili, li annodò, vi pose ad un capo un pezzetto di carta scura, e l’abbandonò fuori la finestra; il vento portò la cartolina ai miei cancelli, io l’afferrai; ed ecco stabilita una comunicazione tra noi mediante quel filo che rimase rasente il muro legato ad un ferro, e però non si vedeva: e noi di sera, e in certe