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il processo 105


ore piú quiete lo facevamo lavorare destramente. Con quelle cento parole, a cui egli aggiunse altre, e poi ciascuno dei compagni aggiunse le sue, noi formammo una lingua di convenzione che neppure il diavolo poteva intendere, e ci usammo a parlarla con una facilitá mirabile.

Eccone qui un saggio. Prima i nomi nostri: Benedetto fu Timur, Pasquale Acmet, io Omar; e poi gli altri come vennero ebbero ciascuno il suo nome. Il carcere latome, i carcerati latomest, la setta botte (lo stivale italiano), i settari bottis, il re Zarcan. Dal romanzo Quintino Durward di Walter Scott, traemmo alcuni nomi: il ministro fu Tristan, il commessario Trois Echelles, l’ispettore petit Andre. Il cibo sitos, il filo dontus, il carceriere chius. Io iace, tu seit, egli iul, noi imis, voi izabi, essi sciis. Sí , no u. I verbi erano invariati, una voce per tutti i tempi, modi e persone: essere mellin, volere telo, scrivere graft, abbandonare labactani, dire fein, rispondere antifein, bisogna string, adagio javasi, mandare ballin, venire erco, fuggire arvoric, vedere idin, sdegnarsi rasc: e tante altre voci che non ricordo piú, e che erano storpiate dal greco, dal latino, da tutte le lingue di cui ricordavamo qualche parola. Spesso una di queste voci era un’istoria. Indovinate come dicevamo guàrdati? Hamschatcha! Va e intendi.

Questa lingua carceraria fu, come si poté, comunicata a tutti, imparata, arricchita da tutti, e si parlava dalle finestre. Il custode maggiore piú volte ci avvertí di non parlare turchesco, perché ci erano persone mandate dal ministro che ci ascoltavano. «Se mi comandano di chiudervi le finestre, io le chiudo, e voi starete all’oscuro. Parlate almeno in certe ore quando non c’è l’ispettore». Il custode era un dabben uomo, non aveva ordini severi contro di noi, e diceva di volerci bene perché aveva buone mance, un tanto la settimana, due piastre, assegnategli dai Musolino. Onde noi stavamo con piú riguardi, ma si parlava da le finestre. Io dissi a Pasquale che mandasse il nostro vocabolario al fratello, ed egli lo mandò per mezzo d’un carcerato: e quando ci fummo accertati che