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228 parte seconda - capitolo ii


figliuoli, come utile insegnamento, la memoria delle nostre sventure. Poveri figli; che trista ereditá avranno da noi! Ma pure, o mia diletta, se essi impareranno da noi come si soffre, come si crede in Dio e si benedice anche nei dolori, come si perdona a chi stoltamente ci perseguita, non saranno scontenti di noi, e ci benediranno. I figliuoli altrui sieno fortunati, i nostri sien buoni. Se la fortuna si fará men rea, e mi concederá di rigustare le dolcezze della pace domestica, oh di quante cose io ti parlerò, e tu e i figli mi parlerete nelle ore soavi della sera, nel santuario della famiglia! Forse allora rileggeremo i Tre giorni in cappella e l’Ergastolo di Santo Stefano che ora ti mando; ed allora ti dirò con quanta fatica, con quanti timori, fra quanti strazi io scrissi. Per ora leggi, e credi che l’anima mia e con te, e co’ nostri figlioli.

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La causa dell’unitá italiana, trattata per otto mesi innanzi la corte criminale di Napoli, non potrá essere dimenticata da chi scrive la storia de’ nostri tempi: e forse un giorno si saprá che vollero, che fecero, e che patirono alcuni uomini napoletani, e per quali vere ragioni e con quali arti furono condannati. Io non ho altro intendimento che di narrare semplicissimamente quello che sentii, che feci e che dissi con Filippo Agresti e Salvatore Faucitano, durante i tre giorni che stemmo condannati a morte in cappella.

La pubblica discussione di questa causa cominciò il 1° giugno 1850, e continuò per sei mesi, nel qual tempo fu da tutti osservato i giudici tacer sempre, il presidente stolto e furioso sragionar sempre: il procurator generale parlar rado, con poche formole e pochissime idee: i denunziatori e testimoni esser uomini pagati, perduti, scelleratissimi, noti per ogni piú brutta infamia: gli accusati serbar grave contegno e parlare non timidamente. Il procurator generale, che nell’accusa scritta aveva richiesto a morte tutti i quarantadue accusati, il 7 dicembre nelle sue orali conclusioni si contentò di richieder morte so-