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II

Tre giorni in cappella.

Ergastolo di S. Stefano, 27 aprile 1851.

 Alla moglie mia dilettissima,

Gli uomini fortunati sogliono offerire alle loro donne diversi doni e preziosi: io che sono uno sventurato non posso offerire altro a te, o cara compagna della mia vita e de’ miei dolori, che la mesta descrizione delle nostre sventure, delle quali tu sofferisti la parte maggiore e piú amara. Ho potuto durare a scrivere, perché in questo abisso spaventevole di tutti i vizi, io sento che scende a me un angelo consolatore, che mi difende, mi assecura, mi solleva l’anima, mi riempie tutto il cuore, e non mi lascia spegnere quel poco lume d’ingegno che mi rimane. Quest’angelo è la tua immagine, o diletta mia: e tu insieme coi nostri figliuoli sei sempre presente all’anima mia, e mi dái vita e speranza. Eravam giovanetti entrambi, eravam giá lieti del nostro Raffaele, e la Giulia ti palpitava nel seno, quando la sventura ci colpí grave e lungamente; e poi datoci tanto spazio quanto bastava per farci sentire piú vivo il dolore di un altro colpo, ci ha percosso piú furiosa. Il mondo non sa, né vogliamo che sappia, tutte le nostre pene, e quanto ci costa la virtú. Ci hanno fatto ingoiare tutte le amarezze, ci hanno trafitti con tutte le punte del dolore, ci hanno tolto ogni cosa, ma non l’amor nostro: e l’amore ci sostiene e ci fa parer bella la stessa virtú. Io scrivo non per avere dal mondo una lode che non merito, o una pietá che m’irrita e m’offende; ma perché resti ai nostri