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248 parte seconda - capitolo ii


che in quella carrozza eran venuti da Santa Maria i carnefici perché il carnefice di Napoli era morto da qualche mese.

La sera vennero due giovani custodi puliti e rispettosi. Con costoro parlammo di varie cose. Salvatore, che è uomo piacevolissimo e facondo napolitano, pieno di motti, narrò molte sue avventure, e cantò ancora un canzoncino mezzo tedesco. Filippo parlò de’ suoi viaggi in Francia, in Inghilterra, in Ispagna, de’ vari usi e costumi di quei paesi. I due custodi non si persuadevano come stavamo cosí sereni.

Volemmo addormentarci. Io dopo una fiera lotta con i miei affetti e con le care memorie della mia famiglia, chiusi gli occhi; ma fui desto dolorosamente da un gran battere di ferri della finestra, fatto da un chiamatore da noi beneficato, il quale dacché eravaramo entrati in cappella, non so se per zelo o per crudeltá, batteva con piú forza. Filippo a un tratto si leva a sedere, e con una voce ed una stizza che mai la maggiore disse a quel tristo la piú grande villania del mondo: «Siamo ferrati, siamo guardati a vista, e tu batti cosí crudelmente? Se domani non mi taglieranno il capo, io ti romperò le braccia». Il chiamatore si nascose nella stanza oscura, i custodi rimasero balordi, e poi ci chiesero perdono per lui. Mi ricordai di Cesare tra i corsari. Non potetti piú gustare una stilla di sonno.

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Ed ecco il giorno di lunedí 3 febbraio. Don Ciccio venne a portare il caffé, che fu differente da quello del giorno innanzi, e non fu permesso a Michele di mandarcelo. Dunque ci stringono: brutto segno. Stavamo attenti alle piccolissime cose. Dopo che si fu partito, sentimmo un odore di zucchero bruciato e d’incenso, ed un rumore di gente che va e viene. Dimandammo che cosa fosse, ed un custode rispose che si facevano i soliti suffumigi. Noi osservammo che i suffumigi non si fanno di lunedí, né di zucchero e d’incenso: onde capimmo che erano venuti i Bianchi. Mentre stavamo tra dubbi