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XXV

(Non son chi fui).

Santo Stefano, 1 febbraio 1855.

Sento una noia, un rincrescimento, una stizza che io stesso non so comprendere né spiegare. Lo studio mi disgusta, il far niente mi pesa, il conversare coi compagni mi dispiace, e non vorrei udirli parlare, non vorrei vederli; aborrisco tutti e me stesso, e tutto quello che è, che fu, che sará. Da prima io era un uomo di buona pasta, ora sono di pasta di cantaridi: per nulla mi adiro, vo’ sulle furie: mi sono renduto grave a tutti, insopportabile a me stesso. Oh! se potessi gettare su questa carta gli affanni che ho chiusi nel petto, se sapessi che queste carte non saran lette da nessuno, io scriverei parole di dolore grande, scoprirei piaghe profonde che mi vanno sino all’anima.

Io non sono piú uomo, ma la centesima parte di un uomo: il corpo è grave e stanco, nel capo non ho piú lume ma una tenebra oscurissima, nel cuore molti squarci profondi e dolorosi che mi fanno male assai assai.

Non son chi fui: di me perí gran parte,
questo che avanza è sol languore e pianto.

Questo volevano: e l’hanno ottenuto: spegnermi l’intelletto, avvelenarmi il cuore, distruggere quel poco di buono che io avevo, e rimanermi il cattivo e il bestiale. Oh, ed io posso amare gli uomini? E son uomo io piú? M’avete imbestiato, e volete che vi ami? Mi avete ucciso l’intelletto, mi avete spento questo caro lume della vita, e volete che io vi ami? Va, io non vi aborrisco, ma vi disprezzo. Siamo tutti una mistura sozza di moltissima sciocchezza, di alquanta malizia, e di poche goccioline di senno: tutti, non ne eccettuo neppure quei