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[399] la morte della mia mente 113


disiando che vengami negli occhi
un raggio di bellezza: brancolando
cerco il vero e nol tocco: ad ogni passo
par che mi si apre sotto i piedi ignota
voragine, entro cui precipitando
i’ non vi trovo mai fondo, né morte.

O Lume, o Mente, o Intelligenza mia,
dove se’ tu? Come garzon che piange
su l’amata fanciulla che per lento
morbo sfioria languendo e si moriva:
cosí piango su te, che a poco a poco
vidi mancarmi, e disparire in guisa
di fumo che nell’aere vanisce.
Chi mi rapì la mia diletta? Forse
sí bella altrui non era: a me leggiadra
m’inleggiadria tutte le cose. Meco
ella nacque, e gemelle innammorate
trascorrevam le solitarie vie
della vita mortale, riguardando
serenamente gli uomini, e le loro
gioie, e gli affanni, e l’opre, e l’insolente
giuoco della Fortuna, e le rovine
del tempo, lento domator del tutto.
Era amore ogni cosa intorno a noi.
Noi sentivamo il palpito segreto
della terra, che d’erbe, d’animali
e di tutti i colori e le vaghezze
s’ammanta per parer piú bella al cielo,
che la mira con tanti occhi ridenti.
E quando vedevam piú forti e ardite
nell’aere librate altre gemelle
gli spazi navigar del firmamento:
«levati», mi diceva, «Anima, ardisci»;
e del disio portate entrambe il volo
dell’aquile prendendo, fin nel sole
giungemmo, e quivi a due vive fontane,
donde talor piovon spruzzi in terra,
bevemmo il vero e il bello. Oh, vita mia,
or chi mi guida il volo, ed a quell’acque
mi riconduce? Per me spento è il sole,
seccate le sue fonti, e in mezzo al buio
dell’universo un ventilare io sento:
certamente è la morte che a me viene.

L. Settembrini, Ricordanze della mia vita - ii. 8