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VII

(Dopo tre anni).

Santo Stefano, 6 febbraio 1854.


Oggi compie il terzo anno che sono giunto nell’ergastolo: fui condannato a morte il 1° febbraio 1851: mi fu annunziata la grazia della sola vita la notte fra il tre e il quattro. Era giorno di giovedí quando giunsi qui, faceva molto freddo, era giorno da un’ora, entrai mentre s’apriva l’ergastolo: entrai io prima degli altri.

Tre anni sono per me un giorno solo, e brevissimo e lunghissimo. Mi rivolgo a contemplare con la mente questo tempo non distinto da avvenimenti e mi par breve: un giorno non è dissimile dall’altro; si vede sempre lo stesso, si soffre sempre lo stesso. Qui il tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, senza stelle, immenso ed uno. Molti ergastolani che sono qui da trent’anni parlando di cose che videro o fecero trent’anni fa, dicono spesso: «Ultimamente vidi questo, feci quest’altro». Anch’io dico: «Ultimamente fui condannato a morte». Ma quando io contemplo me stesso, e l’anima mia, e questo povero cuore straziato; quando conto i miei dolori, e scopro le piaghe profonde che mi vanno sino alla sostanza dell’anima, oh allora questi tre anni mi paiono un tempo infinito; mi pare ch’io non son vissuto altro tempo: non ricordo i pochi piaceri e i molti dolori che ebbi prima: i dolori di questi tre anni immensi sono tutta la vita mia. Tre anni: e se dovrò dir dieci, e venti, e trenta? Io nol dirò, perché non ci vivrò tanto.

Ho il corpo e le vesti sozze: non mi giova uso di nettezza: il fumo e la sozzura mi rende schifo a me stesso. Ho l’anima anche sozza, sento tutta la bruttura, l’orrore, il terrore del delitto, e se avessi rimorso mi crederei anch’io un

L. Settembrini, Ricordanze della mia vita - ii. 4