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IX

(Il tedio).

Santo Stefano, 3 marzo (1854).

È un mese da che ho scritto le parole precedenti, ed a me pare un giorno. Quante cose sono avvenute nel mondo durante questo mese, quanti uomini sono morti, quanti son nati, quanti piaceri si son goduti, quante persone conteranno nella loro vita questo mese come felicissimo o infelicissimo, come un’etá, come uno spazio della loro vita. Per me questo mese, e tutti gli altri passati e gli altri che qui mi troveranno, sono per me un nome. Che ho fatto io in questo mese? Ho sofferto come negli altri mesi che furono e che saranno. V’è stato un solo avvenimento, è venuto il marinaio Colonna a recarmi lettere di mia moglie e della povera mia figliuola Giulietta. Questo marinaio è per me il misuratore del tempo. E quando egli ritornerá? Oh, quando potrò riavere l’unica consolazione che mi è rimasta, di vivere col pensiero un quarto d’ora fuori l’ergastolo leggendo lettere della mia famiglia? Viene cosí tardi, ogni venti, venticinque, trenta giorni: io l’aspetto con un’agonia, con uno struggimento di cuore, guardando il cielo, osservando i venti, dimandando del mare, facendo tra me il conto, può esser partito da Napoli, può essere in Ischia, potrebbe far vela, potrebbe venire. Ma ei non viene, se non di rado: e quando viene bisogna aspettare che il mare non si turbi, che sia cheto il canale tra Santo Stefano e Ventotene, che egli salga, che dia le lettere, che queste sieno lette, che ci sieno portate. Quand’egli parte il cielo mi si oscura per alquanti giorni, poi ricomincio a sperare