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(Il pensiero della famiglia).

Santo Stefano, 5 marzo (1854).

Dopo tre mesi che giunsi nell’ergastolo ne feci una descrizione, che non so se sia andata perduta, come son perdute tante altre carte che ho scritte. {{|Io scrivo perché scrivendo il duol si disacerba}}, perché ho bisogno di scrivere; e s’io non scrivo, non vivo. Che orrore e che tremore io sentivo allora vedendomi in questo luogo e tra questi uomini: come raccapricciavo ad udire raccontare da fiere bocche fierissime uccisioni, descrivere i colpi di coltello, l’assalire, il ferire, il morire; come inorridivo al veder le continue risse, e le spesse uccisioni! Ho veduto versar tanto sangue, far tante scelleraggini, ho udito da tre anni parlar di tanti delitti, che ora vedo ed odo ogni cosa freddamente: l’anima mi si è incallita, non sento piú orrore pel delitto, misero a me, che mi manca per essere anch’io uno scellerato? O madre mia, o padre mio, deh venite a salvare il figliuol vostro: vedete, o anime benedette e carissime, vedete tra quali orrori io son caduto: pregate Iddio innanzi al quale ora siete, che abbia pietá dell’anima mia, che la sciolga da questo corpo, che non la faccia piú insozzare in questa putrida cloaca di sangue e di misfatti. E voi, o carissime immagini della pudica e dolente moglie mia, di quella angioletta della mia Giulia, e del mio Raffaele, venite innanzi a me, fate che io vi rimiri, e mi santifichi questi occhi, co’ quali non vedo altro che orrori nefandi. Dove sono gli occhi tuoi, o Gigia mia, il tuo sorriso, le tue parole che mi scendevano sí soavi