Pagina:Sino al confine.djvu/235

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Di notte la luna calava lentamente fra la roccia e la quercia, e spariva rossa come una brage fra la cenere dell’orizzonte. Si udivano le pecore pascolare, l’assiuolo batteva il tempo col suo grido di sentinella melanconica, e talvolta il vento spingeva fin lassù il rintocco delle ore dal villaggio raccolto in una insenatura della montagna. Zio Sorighe, sdraiato su un pagliericcio pieno di felci secche, sollevava la testa per ascoltare. Dai buchi del tetto si vedeva lo scintillìo delle stelle filanti; i sorci, le lucertole, i tarli, le tarantole e i ragni circondavano i sogni del vecchio come quelli di un alcolizzato. Ma egli viveva fraternamente con questo popolo, e non si preoccupava se le lucertole bevevano nella sua brocca e se i ragni tessevano i loro fili tra un pezzo e l’altro del suo pane, se gli passavano sul viso quando dormiva, se si riposavano sui suoi capelli come sopra un cespuglio! Gli altri insetti non lo molestavano perchè la sua pelle oramai era scura e dura come la scorza degli alberi.

Ed egli, addormentandosi, pensava ancora alle sue canzoni, alla festa dell’anno venturo e alla vedova che era stata sul procinto di sposarlo. Se udiva qualche rumore nella sacrestia o nella chiesa non si moveva: per nulla al mondo avrebbe sparato la pistola che gli avevano consegnato per difendersi in caso di assalto ma soffriva di cuore, e alla minima emozione gli pareva che una ruota gli girasse