Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu/284

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cclxxii Prefazione


da istruire, ma da struggere, e così ferisce quei giornali che non rispettano nulla.

Tuttavia ne’ versi 3°, 4°, 5° e 6° di questo sonetto, io ci sento qualcosa di superfluo; e credo che il Belli avrebbe trovato altri nuovi particolari, per renderli più variati e concettosi. È vero che qui il difetto si vede appena, coperto com’è abilmente dai differenti modi onde fu toccata la medesima corda; ma io ho voluto notarlo, perchè mi pare visibilissimo in altri sonetti del nostro autore.

Comunque sia, eccone altri otto sopra argomenti vecchi e trattati più o meno anche dal Belli, ma che il Ferretti ha saputo ringiovanire, guardandoli da lati nuovi e pensandoli col proprio cervello senz’ombra d’imitazione:

LA POVERELLA.1

     Oh! be’ levata, signorina mia...
So’ io, nun ve sovviè? So’ propio quella
Che vostra madre, benedetta sia,
Quanno ch’annav’in chiesa, poverella,
     Me dava sempre quarche cosa... Eh via!
M’ajuti un po’, signorina mia bella;
Ch’io pregherò la Vergine Maria
Che nu’ la facci arimané zitella.
     Nun cià gnente? Ma propio nun cià gnente?...
(Va be’, sempre le solite canzone,
Ma io mica ce credo un accidente.
     E sì dura cusì ’na sittimana,
Pe’ me la lasso annà sta professione:
Guadambio più si faccio la roffiana.)

PE' SARVÀ CAPRA E CAVOLI.

     Come? dove se va? Se va in parrocchia.
Da chi se va? Se va da don Cremente,
Che co’ la cosa che poco ce sente
E un omo che co’ gnente s’infinocchia,

  1. Si confronti questo sonetto con quello famoso del Belli, vol. II, pag. 116.