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132 Sonetti del 1832

LI DU' SBILLONESI.1

   Pare chiaro oramai, fijji mii bbelli,
Che ttutto abbi d’annà a la bbuggiarona!
Cqua vvedete che rrazza de ggirelli2
Ciavémo attorno, e Iddio come sce sona.3

   Ma in cap’ar monno sce ne sò dde cuelli
Co’ un ciarvello, per dio!, che nun cojjona.
Nun fuss’antro ste furie de fratelli
De cuer paese orbo4 de Sbillona.

   Se chiameno don Pietro e ddon Micchele,5
Ma vvolenno ammazzasse a ttradimento,
Per mé, li chiamerìa Caìno e Abbele.

   E cquanno che ppoi sèmo a una scert’ora
De scannà er monno pe stà ffòra o ddrento,
Bbuggiarà cquello drento e cquello fòra.

Roma, 20 novembre 1832

Note
  1. Lisbonesi.
  2. Pazzi.
  3. [ Tristissimi furono quei primi anni del regno di Gregorio, e non solo funestati da rivolture, da intestine discordie, e da fazioni acerbe, ma eziandio da fisici accidenti. Violenti turbini e grandine, quale a memoria d'uomini non si era vista mai, schiantarono gli alberi, distrussero le messi, disertarono i campi nella state del 1832 in alcune contrade di Romagna. La terra tremò, in quello e nei seguenti. in vari luoghi; a Foligno rovinarono molte case: molte più scassinate: le genti prese da spavento. Dio castigava, dicevan tutti; ma ogni partito ne dava colpa alle peccata dell'altro, e gli animi non si ricomponevano a concordia. Il governo malversava e comprimeva: il Sanfedismo prepoteva: il liberalismo mordeva il freno, e si travagliava di nuovo nelle cospirazioni.„ Farini, Op. e vol. cit., pag. 74.]
  4. Cioè: “paese rimoto, sconosciuto„.

Michele e Pietro di Breganza

[Su don Michele di Braganza possono anche vedersi i sonetti: Er Portogallo, 27 nov. .32; Don Micchele ecc., 14 dic. 34; La caristia ecc., (1) e Le commediole, 24 e 25 maggio 37. C’è poi quello famoso del commediografo Giovanni Giraud, corretto però dal Belli, e al Belli comunemente attribuito. Io lo pubblicai già nell’ediz. Barbèra col nome del vero autore, e ora lo ristampo qui come l’ho trovato tra le carte del Belli, corretto cioè da lui sopra una copia di pugno del Giraud; il quale era uomo di acuto e vivace ingegno, ma maltrattava ugualmente l’italiano e il romanesco. Darò nellultima nota la lezione originale.

DON MICCHELE DE PORTOGALLO.1

     Ce mancava pe’ nnoi st’antro accidente:
Doppo fatto ar Brasile er pappagallo,
Rïècchete2 don Pietro a fa er reggente,
Pe’ rrompe li c..... ar Portogallo!

     In fonno, a me nun me n’importa gnente;
Chè, gvazziaddio, noi stamo a culo callo:3
L’Ebbreo ce dà quadrini allegramente,
E ssi cce maggna sopra,4 buggiarallo.

     Ma me sento schiatta pe’ Dommicchele.
Je lo volevo di: "Sei troppo bbono:
Nun ce vònno nè diavoli nè santi:

     Quanno vedi ch’er popolo è infedele,
Stàmpeje un beli’ editto de perdono,
E ’r giorno appresso impicca tutti quanti.5

Agosto 1832.

  1. [Questo titolo è tradizionale, ma manca nel testo. — Per capire e gustare il sonetto, è indispensabile il rammentare i principali avvenimenti, di cui don Michele di Braganza fu protagonista. Giovanni VI, re di Portogallo, dopo la rivoluzione scoppiata a Oporto nel 1820, e divampata poi in tutto il regno, dovette nel 1821, dal Brasile dove si trovava fin dal 1807, tornare a Lisbona, giurare la costituzione che i rappresentanti del popolo gli proponevano, e affidar la reggenza de’ possedimenti brasiliani al primogenito suo, don Pietro. Passò appena un anno, e mentre il Re, sobillato dalla regina e dall’altro suo figlio don Michele, studiava il modo di levarsi d’attorno l’incomodo delle Cortes, i Brasiliani, insofferenti della soggezione al Portogallo, gridarono la loro indipendenza, nominando imperatore il Principe reggente. Re Giovanni protestò e dichiarò guerra al figlio e a’ ribelli. Intanto don Michele, s’affaccendava d’accordo coll’alto clero, colle corti di giustizia e cogli ordini privilegiati, affiachè i liberali portoghesi pagassero il fio de’ ribelli brasiliani. In conseguenza di tali maneggi, che non potevano essere ignoti al Re, scoppiò nel febbraio del 1823 una rivoluzione in senso reazionario a Villa Real, capitanata da un Conte di Amarante. Minacciò estendersi anche nelle province, ma i costituzionali riuscirono a soffocarla. Allora la reazione volse i suoi sforzi a corrompere e tirar dalla sua una parte dell’esercito, il che agevolmente le venne fatto. — La notte del 29 maggio dello stesso anno, don Michele uscì da Lisbona per Villafranca alla testa del 23° reggimento di fanteria, dando così il segnale della rivolta, che in brev’ora fu seguita da tutto l’esercito. Il 2 di giugno, le Cortes, costrette a separarsi, protestarono solennemente contro il Re spergiuro. Quasi tutte le corti d’Europa, e prima d’ogni altra, quella pontificia, mandarono congratulazioni e ringraziamenti a don Michele, e il padre lo nominò generalissimo dell’esercito. Ma un anno dopo, avendo il Re concepito il disegno di riconciliarsi col popolo, dando una nuova costituzione, don Michele gli si rivoltò contro; questa volta però il colpo gli fallì, e invece della sperata reggenza, ebbe il bando dal Portogallo. Intanto la guerra contro il Brasile non procedeva favorevole ai Portoghesi; e nell’agosto del 1825, re Giovanni doveva finirla, riconoscendo l’indipendenza di quell’Impero. — Morto il Re il 10 marzo 1826, nel successivo mese il figlio don Pietro, istigato dai liberali portoghesi, aggiunse al titolo d’Imperatore del Brasile quello di Re di Portogallo ed Algarvia; e pubblicata una nuova costituzione, sulle norme di quella spergiurata dal padre, il 2 maggio abdicava il regno in favore della figlia Maria II da Gloria, ch’era ancora bambina. La reazione dal canto suo non stette inoperosa, e nel luglio e ottobre 1827 acclamò re don Michele, in favore del quale parecchie corti d’Europa fecero rimostranze a quella di Rio-Janeiro. Allora don Pietro, per provare col fatto ch’egli aborriva dalla guerra civile, nominò il fratello luogotenente de’ regni portoghesi. Don Michele accettò, e da Vienna recatosi immediatamente a Lisbona, prestava, davanti alle Cortes convocate secondo il nuovo statuto, giuramento solenne di fedeltà al fratello Pietro IV e alla nipote Maria II, obbligandosi a metter questa nel governo, appena fosse giunta all’età maggiore. L’ebbe anche promessa in isposa e firmò il contratto nuziale. Ma tutto ciò non lo appagava, e nel prestar giuramento aveva già pensato al modo di spergiurare. Formato infatti un ministero di suoi antichi partigiani, sciolse le Cortes, riconvocandole poi secondo il vecchio sistema de’ tre Stati, i quali, com’è naturale, lo svincolarono dal giuramento, e lo dichiararono unico re legittimo. I costituzionali insorsero, ma rimasero sopraffatti, e la repressione fu sanguinosa e terribile. Il Papa e le Corti d’Europa plaudivano, meno Inghilterra e Francia, che protestarono contro l’usurpazione, richiamando i loro ambasciadori. In questo mezzo moriva a Roma Leone XII, e don Michele ordinava pubblico lutto e solenni funerali. — Don Pietro, dopo aver abdicato l’Impero brasiliano in favore del figlio, il 17 aprile 1831 venne alla volta d’Europa contro don Michele, e nel luglio del 1832 sbarcato a Oporto con 7000 uomini, dopo varia vicenda di piccola guerra, aiutato efficacemente dai liberali, il 24 luglio dell’anno successivo, riuscì ad impadronirsi di Lisbona e a mettere la figlia sul trono, sotto la sua reggenza. Aveva già dichiarato che tratterebbe come ribelli i vescovi eletti da don Michele e riconosciuti dal Papa. Tenne la parola, e quindi ne nacque un battibecco colla Corte di Roma, la quale favoriva in tutti i modi i Michelisti. Ma sconfitti costoro in campale battaglia il 16 maggio 1834, dieci giorni dopo don Michele capitolava a questi patti: che gli si lasciassero i beni privati, e gli venisse pagata un’annua pensione di 375 mila lire; egli dal canto suo si obbligava a partir subito e a non più tornare nella Penisola iberica. Arrivato a Genova, si penti, e protestò per salvare i suoi pretesi diritti. Così perdeva pensione e beni privati. Ma Gregorio XVI gli apriva a Roma le paterne braccia, accogliendolo con que’ riguardi dovuti a un caporale della reazione europea, e assegnandogli la bagattella di 1800 scudi al mese, da levarsi dal pubblico erario, il quale dopo i casi del 1831 era venuto in tali angustie, che si dovette contrarre un prestito con Rotschild al 63 per cento (V. il sonetto: La sala de Monzignor Tesoriere, 8 genn. 32). In tal modo, i sudditi del Papa facevano la penitenza non solo de’ propri, ma anche dei peccati de’ liberali portoghesi.]
  2. [Rieccoti.]
  3. [Comodamente: come chi sta sopra sedia soffice]
  4. [Vedi la nota 1, verso la fine.]
  5. [Questo consiglio dato a don Michele, che in parecchie occasioni lo aveva già posto ad effetto, colpiva di rimbalzo la Corte romana, la quale aveva di fresco violata la capitolazione d'Ancona, e permesso che il prode generale Zucchi ed altri patriotti modenesi e romagnoli (che giusta i patti conchiusi col cardinal Benvenuti, dovevano essere amnistiati), venissero presi, mentre emigravano, dagli Austriaci, e poi condotti a Venezia, e là tenuti prigioni, e lo Zucchi condannato a morte da un tribunale militare: compiendosi in tal modo i voti di Gregorio XVI, il quale disconobbe Patto solenne del suo cardinal legato, e volle svellere fin dalle radici la zizzania, affinchè non fosse soffocato il grano eletto. V. il Manifesto indirizzato da papa Gregorio a' suoi dilettissimi sudditi, il 5 aprile 1831. — Ecco il sonetto, come fu scritto dal Giraud. Vi aggiungo solo la punteggiatura, che difetta quasi interamente, e qualche accento qua e là:

         Adesso ce mancava st' accidente:
    Dopo fatto ar Brasile er pappagallo,
    Arriècchete don Pedro da reggente
    A rompe li c.... ar Portogallo [sic].

    A noi per èsse non c'importa gnente,
    Che stamo, grazie a dio, cór culo callo:
    L'Ebreo ce dà danari allegramente,
    E ce se magna sopra buggiarallo!

    Ma me sento schiattà per don Michele.
    Glelo [sic] volevo dì: "Sei troppo bono:
    Quanno vedevi er popolo infedele.

    Senza chiamà né diavoli né santi,
    Stampagle [sic] un bell'editto di perdono
    Er giorno appresso impicca tutti quanti.„]