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Pagina:Sotto il velame.djvu/107

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il passaggio dell'acheronte 85

forse, che “in tutte parti impera e quivi„ cioè nel paradiso “regge„, è bensì “l’imperator del doloroso regno„, ma “regge„ solo in quella città che ha la sua porta più “segreta„ che quella dell’inferno tutto.[1] Or prima della morte del Cristo, reggeva anche nel limbo: tanto è vero che a contrastare il passo al possente, dietro la porta dell’inferno tutto, erano i piovuti del cielo; i quali, poi, furono confinati dentro quella città dalla porta più segreta. Il “grande stuolo„[2] soltanto là si può vedere, soltanto di là cominciò Dante a vederlo. Di che, altrove. Qui riconosciamo che la rottura della porta e il passo dell’Acheronte, per opera del Redentore, significano appunto il battesimo, che noi avemmo nella sua morte, del quale primi goderono quelli che crederono nel Cristo venturo, e conobbero quindi subito il frutto della croce. E la porta che rimase aperta simboleggia appunto il volere che rimase libero. Dante prende a Virgilio l’idea della porta spalancata notte e giorno, e la fonde con l’altra cristiana, che il Cristo ruppe le porte d’inferno.[3] Ma la porta Virgiliana significa, col suo essere aperta sempre, che notte e giorno si può morire; e la porta Dantesca, per essere senza serrame, significa che sempre, da quando i serrami furono rotti, l’uomo può salvarsi.

Eppure una porta aperta, se un senso ha da avere, parrebbe dovesse aver questo, che chi vuole può entrare, e che ognuno può entrare; e quella dell’inferno, dunque, col suo essere aperta, che ognuno

  1. Inf. I 127, XXXIV 28, VIII 125.
  2. Inf. VIII 69.
  3. Aen. VI 127: Noctes atque dies patet atri ianna Ditis.