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338 sotto il velame

giustizia possibile e facile e debita, ebbe “contrarietà nel velle„, perchè la loro volontà non era sincera da ogni cupidità, e perciò sebbene giustizia fosse in loro, tuttavia non c’era “nello splendore di sua purezza„.1 Perciò sono tra i negligenti. E perciò assomigliano ai fangosi e ai gran regi che staranno nel brago: perchè quel po’ di cupidità che altro è se non il residuo dei due vizi collaterali alla fortezza? se non dismisura d’ira? dell’ira che è cote della fortezza? che è necessaria a giustizia? Onde non senza perchè, qui, dove la volontà è tutta volta al bene, Dante mostra un Giudice2

                                segnato della stampa
               nel suo aspetto di quel dritto zelo,
               che misuratamente in core avvampa.

L’ira per zelum, la passione che genera la fortezza e perciò propugna la giustizia, è ora in lui; non sempre fu, nè certo mai in quell’alto grado eroico che fu in Enea il giusto. Ma il lungo tema mi caccia. Basti ancora accennare l’analogia che è tra i sepolti nell’arche e i sospesi tra la tenebra e non solo i principi della valletta ma anche gli scomunicati. Le due specie di peccatori dell’antipurgatorio sono così trattate e disposte e colorite dal poeta, perchè da qualunque delle due si cominci, si trovi una rispondenza con i due ordini dell’antinferno e dell’antidite. Ma la rispondenza è a ogni modo più netta all’inverso. Nell’antinferno è prima la difficultas, seconda l’ignorantia, originali; nella antidite prima l’infirmitas, seconda l’ignorantia, attuali: nel-

  1. De Mon. I 13.
  2. Purg. VIII 82 segg.