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Pagina:Spanò Bolani - Storia di Reggio Calabria, Vol. I, Fibreno, 1857.djvu/260

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capo quarto 235   

tunque costoro, fortificatisi in Santagata e nelle altre terre prossimane, mettessero a cotidiana distruzione le coltivazioni del suo territorio, ne uccidessero gli abitanti, e commettessero prede, rapine, ed esterminii indicibili; quantunque il nome di re Ferdinando fosse già al tutto cancellato e vilipeso in questa regione, pure Reggio resisteva alle minacce, alle percosse, alla furia de’ nemici, per virtù e volere de’ proprii cittadini, non per alcuno ajuto che potesse aversi o sperarsi dal re aragonese.

Come questo re ebbe la dolorosa nuova della sconfitta del suo capitano, considerando che da questo sinistro avrebbero preso maggior lena i suoi nemici, volle mandare in Calabria contro i sollevati il suo proprio figliuolo Alfonso Duca di Calabria, ancor giovanissimo, affinchè col consiglio di Antonio e Luca Sanseverino reggesse la guerra coll’influenza del regio nome. Ed in effetto ebbe alla prima in suo potere Gerace, poi la Roccella, e via via altre terre e castella. Internatosi in seguito nella più meridional parte di Calabria, si avviò coll’esercito verso Pentidattilo, i cui abitanti per difender quel castello avevano piantati molti bastioni fuori della porta. Ma al primo assalto mal resistette, e fu preso e saccheggiato. Di qui seguendo il viaggio il Duca di Calabria si pose a campo a Motta Anomeri. Intimò la resa a que’ terrazzani, ma non vollero sentirne; appresentò le artiglierie, e minacciò di fulminarli; alzò bastioni avanti la porta della rocca, formati di recisi alberi e di fascine. Ma que’ di dentro tenevano il fermo; ed una notte venne lor fatto di appiccare il fuoco alle opere degli assalitori, e di mandarle alla mal’ora. In somma colle loro spesse sortite que’ coraggiosi mottigiani tanto molestarono i preparativi di assalto, che il Duca di Calabria videsi obbligato a mutarlo in regolare assedio. Per il quale i terrazzani vennero a tanto estremo difetto di acqua e di viveri, che dovettero in breve scendere a’ patti, ed arrendersi. Ottenuta quella Motta passò Alfonso all’altra detta Motta Rossa, e vi ordinò le artiglierie e le schiere per batterla. Ma si riversarono in sul buono così frequenti e copiose piogge con tuoni e folgori, che scoppiata parte della munizione ch’era nel castello, ne restaron morti quattordici degli assediati; e Sancio d’Acerbo, il quale comandava il presidio, fu così colpito dal fulmine, che per molti giorni restò mentecatto. Non vi volle poco a supplire alla mancanza della munizione bruciata; e contuttociò que’ di dentro duravano alle prove con grande ostinatezza.

Avvenne in quel mentre che un certo Antonio, il quale di frate si era mutato in soldato, e che chiamavanlo perciò il Gabba Dio, trovandosi dentro la terra si profferse a Sancio d’Acerbo bastargli