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Emma intuiva i sentimenti della signora Mandelli, e tanto più s’irritava contro il Brussieri.

— Che colpa ne ho io? — gemeva nel suo segreto. — Cosa ho fatto?

Mille progetti confusi le attraversavano la mente. Avrebbe voluto lasciare quella casa. Andare a vivere da sè; non pesare più sugli altri: essere libera. Povera, ma libera. Certi benefici, troppo prolungati, diventano spesso un peso gravoso per chi li fa, una insopportabile schiavitù per chi li riceve. Emma sentiva questa amara verità e si accasciava. A diciasette anni certe verità fanno troppo male.

— Sono una ingrata — diceva con dispiacere, quasi con vergogna. — Non posso sopportare le umiliazioni. Il mio orgoglio si ribella. Ho torto. Sono una poveretta, dovrei fare la serva, e faccio la signora... E ancora mi lagno!

Rammentava i giorni dell’infanzia, il modo con cui era stata raccolta, tenuta in casa dai Mandelli. E come l’avevano allevata, educata, al pari della loro figlia. Il suo pensiero si fermava con speciale tenerezza sul signor Leopoldo, così affettuoso, così nobile. Egli era stato per lei più che un padre. Per lei aveva sfidato i sospetti della moglie, le ostilità dei parenti: per lei, per una estranea, una figlia di zingari. Ricordava certi giorni in cui egli, tristissimo, oppresso da un occulto affanno, la prendeva con sè, la conduceva fuori per la campagna, in carrozza o a piedi. E quando erano