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320 | nell’ingranaggio |
Non si era ingannata. Due occhi sbarrati la guardavano, mentre la bocca accennava a parlare. Le arrivò all’orecchio una invocazione anelante:
— Gilda! O Gilda!...
Ed ella alzò le braccia tremanti in segno di saluto.
Ma il treno aveva già ripreso la sua corsa e un momento dopo tutta la visione era scomparsa.
— Io ti seguo, io ti seguo — ripeteva Gilda dentro di sè, nell’ultimo delirio dell’amor suo, mentre entrava nella stazione e si avviava verso la città.
Camminava a passi rapidi, tutta concentrata, nell’ombra delle strade silenziose. Non c’era luna, ma il cielo stellato e limpido, e un freddo intenso. Ella si era alzata il velo nel vagone e non l’aveva più abbassato. Non si accorgeva dell’aria frizzante che le arrossava il viso. Qualche viandante notturno che vedeva quella figura nera, sottile, la guardava un momento, poi si voltava, stupito di una apparizione così insolita a quell’ora.
Ella non vedeva nessuno.
Svoltava gli angoli delle strade, traversava le crociere, le piazze, senza arrestarsi.
Andava al Lambro, che taglia la città in due parti, al piccolo fiume dalle linee dolcemente mosse, abbellite da giardini signorili, rallegrate da edifici industriali, coronate dalla stesa delle case su cui emerge la vecchia torre quadrata della chiesa maggiore, e la massa nera e tozza dell’antico castello.
— Al Lambro, al Lambro, ella ripeteva sommessamente, esaltandosi: le sue acque mi porteranno verso il Sud, dietro al treno.