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Nessuno rispondeva a questi discorsi, poichè ciascuno pensava a sè, come accade ordinariamente in simili luoghi. Solo due buone donne della campagna l’ascoltavano a bocca aperta: Ernestina e sua madre. E la madre, forse ancora più ingenua della figliuola, guardava la sua diletta con un sorriso beato, che parea dirle: sii brava, studia, così ti farai onore anche tu, non si sa mai: è dolce poter dire: io ho scambiato un dono con Sua Maestà.

— Povera mamma! — mormorò Ernestina, sorridendo malinconicamente a questo ricordo, mentre i suoi occhi si inumidivano.

Tre anni dopo quando ottenne la patente superiore, con tutti dieci in media, invidiata dalle compagne, festeggiata dai parenti, ella si credeva già molto esperta. Da lungo tempo aveva capito che le ragazze più belle od agiate si davano poco pensiero di studiare, e parlavano con molto più interesse degli amici dei loro fratelli, o dei loro cugini. Alcune raccontavano di essere fidanzate, e che aspettavano di compiere i diciotto anni per maritarsi. Ella non aveva fratelli e quindi neanche amici dei medesimi. I suoi cugini erano uomini maturi con moglie: e mai un giovane aspirante o sospirante s’era presentato nella povera casa di suo padre. Non era bella, ahimè! e le compagne glielo dicevano abbastanza chiaro. Era forse una rappresaglia a cui s’abbandonavano volentieri per umiliarla un poco, quando i professori la lodavano, citandola ad esempio, come un modello di diligenza.

Lei non sapeva vestirsi; lei faceva l’eccentrica; la donna superiore. Queste cose dicevano le ragazze per farla soffrire. E non era punto vero. Ella amava ingenuamente le fanciulle


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