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— assai elegante davvero, dove la marchesa riceveva gli amici e le amiche tutti i sabati e tutti i giovedì.

Il marchese Giorgio non si lasciava quasi mai vedere in quel salottino; preferendo ad ogni altro luogo, il suo brutto scrittoio, con una sola finestra sopra una corticella buia, con pochi mobili tarlati e le pareti annerite dal fumo.

Là egli passava i giorni e le sere, scrivendo e fumando in compagnia di un suo factotum che gli procurava certi lavori avvocateschi, nei quali, la laurea di legge e la firma d’avvocato, prese dal nobile signore in gioventù per semplice lusso, potevano ancora tornare utili procurando al vecchio impoverito qualche piccolo guadagno.

Del resto egli non usciva mai, dacchè la decadenza della sua casa non si poteva più nascondere e certi debiti erano portati in piazza. La città gli era odiosa, e quando arrivava dalla campagna aveva cura di arrivare a notte; quando poi ripartiva, si metteva in viaggio prima dell’alba.

Zia Elena stava anche lei chiusa nella sua camera al secondo piano, dove ella pure riceveva alcuni suoi amici semisecolari.

Così questi tre vecchi, la cui esistenza acquistava in campagna un certo grado di comunanza, qui non si vedevano altro che a pranzo e a cena.

Anche i rosarî erano sospesi; ovvero li recitavano a parte. Zia Elena per conto suo, li recitava alla finestra, in sull’imbrunire, guardando le signore che andavano a spasso e interrompendo le sue Avemmarie, con delle osservazioni di questo genere: «Maria Venieri s’è fatto un mantello nuovo! guarda come sta bene!» — oppure: «ah! il povero conte Furegoni come si trascina con quel bastone! Vec-