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tino. Vestendoci subito si aveva tutto il tempo. E si cominciò a vestirsi, tremando di freddo, nella casa piena di ombra; perdendo tempo a cercare gli oggetti più famigliari, urtandoci l’una con l’altra.

La mamma non riesciva ad agganciare le molle del busto causa il tremito delle sue mani, Lina si era vestita tutta dimenticandosi d’infilare le calze. E ogni tanto una di noi si fermava domandando con voce rauca:

— Ma che cosa sarà successo?...

— Che cosa pensate voi altre?

— Tu, Laura, che ti dice il cuore?

— Tu, Lina, che sei la più giovane, dì, bimba mia, non sarà mica morto il babbo?...

— Morto! — esclamò singhiozzando la bimba che non ci aveva pensato ancora: — Morto! oh! il mio babbo!

Questo grido dell’anima rimbombò come una martellata nelle nostre teste indolenzite, nel silenzio della notte.

Ci sì buttò a piangere tutte e tre insieme abbracciate. I nostri nervi si calmarono un poco. Era il tocco e mezzo. Si fecero con più discernimento gli ultimi preparativi.

Morto, no, non poteva essere! Avrebbero scritto. Forse era caduto; si era fatto male; voleva vederci. Forse, l’amico esagerava. Finalmente fummo pronte. Si chiuse la casa. Io depositai un biglietto sul finestrino della «portineria» per avvertire la donna di servizio. A Marino avremmo scritto poi, con più pace. La mamma aveva detto che non era il caso di spaventarlo anche lui che doveva lavorare. La notte era fredda e piovigginava. Si andò alla prima stazione di vetture e ci si fece portare alla «Centrale».

Arrivammo più di quaranta minuti prima della partenza,