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che saturava la nube. Venire avvolto nella vampa d’un fulmine poteva essere una magnifica fine rispetto all’estetica e alla poesia ma non avrebbe rappresentato precisamente una vittoria per l’aviatore.

La risoluzione sua fu pronta.

Poichè l’apparecchio era fornito anche di benzina, egli poteva bene per qualche tempo chiedere l’energia pel suo motore a quella stessa fonte che gli aveva servito per innalzarsi. Chiuse l’apparecchio d’induzione elettrica e riaperse l’accensione e fu appena in tempo a provvedere poichè proprio in quell’istante un fulmine scoppiava poco sotto il velivolo accompagnato da un rombo possente e spaventoso.

Fra gli occhi corruschi dell’aviatore si era scavata la ruga che riassumeva tutte le sue preoccupazioni nei momenti noiosi o difficili. L’ora era davvero difficile. L’aereoplano tagliava in pieno la nube e pareva gli fosse calata improvvisa, intorno, la notte, una notte solcata da lampi di fuoco, flagellata dalla pioggia, corsa da raffiche tremende, attraversata dall’urlo di misteriose voci tonanti che dicessero minaccie paurose.

La battaglia, nella sua terribilità, era così bella, che Noris sentiva centuplicate le sue forze da una specie di esaltazione entusiasta. Non sentiva la pioggia che gli batteva sulla maschera del viso, sull’elmetto, sullo scafandro, che penetrava attraverso i grossi guanti che gli proteggevano le mani, che percoteva i vetri dell’apparecchio. Non pensava nemmeno più al pericolo mentre manovrava attento, calmissimo, sicuro a riparare lo squilibrio improvviso prodotto da una raffica più forte: soltanto il gusto aspro della lotta sentiva e il bisogno di essere il più forte mentre era, col suo apparecchio, il più fragile nel duello spaventoso impegnato contro tutte le forze della natura coalizzate contro di lui. Vincere voleva — non tanto perchè perdere significasse morire quanto perchè tutto il suo essere e tutto il suo istinto si affermavano nel bisogno di mostrarsi il più forte.

STENO. La veste d'amianto. 14