Pagina:Steno - La Veste d'Amianto.djvu/217

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Figgendo lo sguardo laggiù, all’estremo occidente, egli non pensava più lo spazio infinito ma pensava la terra. Ogni palpito del suo motore, ogni giro dell’elica avvicinavano l’apparecchio alla terra, alla meta, alla vittoria. Si faceva realtà tangibile, adesso, la vittoria, non ora più sogno o soltanto speranza.

Come sollevava tutto il suo spirito quel pensiero della vittoria vicina! Non sentiva più la stanchezza, non sentiva più il disagio. Tutte le sue energie erano sovreccitate così che parevano decuplate.

Poco più di quattr’ore, ormai; cos’erano, di fronte alle venti ore che già erano passate?

Non sentiva nemmeno il languore: per non venir colto alla sprovvista da qualche improvvisa debolezza, aveva ricorso più volte al cordiale preparatogli da Giorgio Dauro, non perchè sentisse gli stimoli della fame. Tutti i bisogni fisici erano sospesi nel suo organismo, vinti dalla tensione nervosa che costituiva tutta la sua energia di resistenza.

Quattr’ore! cos’erano, ormai, per lui che si sentiva ancora forte, lucido, sicuro? cos’erano colla prospettiva di quel cielo limpido, di quell’aria tranquilla, di quella serenità piena di pace?

Appena uscito dalla tempesta egli aveva chiuso l’accensione e ristabilita l’energia elettrica. Ripensando all’utile che gli aveva reso la benzina si compiaceva d’essere riuscito a persuadere Dauro di applicare al velivolo il congegno che permetteva di adoperare indifferentemente l’una o l’altra delle energie applicate al motore e l’immagine di Dauro, evocata da quella riflessione, riportò il suo pensiero a tutti gli amici che lo seguivano a quell’ora trepidando.

— Scommetto — si disse — che Dauro ha passato una notte meno tranquilla della mia!

Fra poche ore, fra poche ore egli avrebbe ricevuto la notizia del compiuto prodigio: fra poche ore quella notizia, si sarebbe propagata in Genova e da Genova, da New-York, da Horta, si sarebbe diffusa per tutto il mondo. Quanti