Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 272 — |
— Direte al vostro celebro amico che mia madre mi ha lasciato una fortuna assai superiore ai miei bisogni e che io adoro la mia libertà al disopra di qualsiasi cosa.
— Nemica del matrimonio per principio, adunque?
— Non so, non ci ho pensato mai. Mai, vi giuro.
— Ma non vi pesa la vostra solitudine? — domandò Noris con altra voce, dimentico ora di Dauro, attratto di nuovo e soltanto dal mistero di quella strana anima.
Minerva si rivolse a guardarlo:
— A voi, la vostra, pesa?
— È un’altra cosa. Io sono un uomo. Ho il mio lavoro. E i miei ricordi, — soggiunse piano.
— E io ho il mio sogno.
- Ah! — fece Noris con voce lieta come se la scoperta lo rallegrasse assai, — voi avete un sogno, piccola saggia Minerva?
— Sì.
— Un grande sogno?
— Grande! — disse la voce con un’intensità di passione dentro che giunse fino all’anima del giovane.
— E ha un nome il vostro sogno?
— Ha un nome, sì.
— Oh! chi lo avrebbe mai sospettato! È triste o lieto il vostro sogno, o piccola Minerva?
— È grande come la vita e amaro come la morte!
— Si chiama passato o avvenire?
— Potrebbe chiamarsi avvenire se il passato non lo tenesse così inesorabilmente come i tentacoli di una piovra mostruosa.
Non l’ombra di un sospetto passò nel pensiero del giovane.
— Voi vincerete la piovra, — egli disse con una voce commossa che era ispirata soltanto da una grande bontà.
Senza nessun orgoglio più, Minerva esclamò:
— Dio vi ascolti!
E di nuovo fu il silenzio della confidenza triste e dolcissima.