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CAPO VII. 133

che al tronco del popolo preponderante ad ogni altro fossero aggregate alla città legittimamente anco le tribù dei compagni. In fine fu per certo nella somma delle cose clemente quel dominio che lungi dal distruggere le città de’ vinti n’edificò delle nuove: rese migliore il clima seccando le paludi: propagò per tutto giovevoli arti: e da stato di rustichezza ridusse a più temperato e civile governo i soggetti.

Divisata sin qui la potenza esterna degli Etruschi, e innanzi che procediamo a trattar dell’interna, ci rimane a considerare l’importante problema, che ora s’affaccia alla mente di ciascuno. In qual forma, cioè, abbiano potuto gli Etruschi avanzare tutti gli altri Italiani in prosperità, e rendere alfine se medesimi cotanto civili. La macchina di tutto il governo etrusco era fuor d’ogni dubbio d’instituzione sacerdotale. Derivava dunque da quella sapienza, che reggeva in allora il mondo civile per conformità di bisogni, di mire e di circostanze, così nell’Oriente, come nell’Egitto. Nessun discreto lettore vorrà sapere da noi fermamente come ciò avvenisse; ma s’appagherà per ragione con la morale certezza del fatto. Pure, divinando del modo, non è di poco credibile, che in tante rivoluzioni di popoli e di schiatte, le quali agitarono il mondo antico, uomini travagliati, e famiglie fuggiasche di stirpe sacerdotale siensi ricoverate in Italia, dove, o con la dignità del grado, o coll’arti misteriose, poterono bene farsi maestri a popoli, che avean sì la forza, ma non la scienza. E questo pare anco maggiormente probabile, se