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106 CAPO XVIII.

quivi trasportato in Roma1. Eravi un altro Giano bifronte: in questi gli Etruschi riconoscevano l’autore del cielo, e il dio preside di tutte le azioni umane2; forse lo stesso cui davasi, alla maniera degli Egizj per sorella e moglie Camesena, o sotto simbolo la terra natìa3. Ma chi può dire quali si fossero i più veri e celati pensieri della loro amica teosofia: quale la sacra triade etrusca nata dell’ente universale, e concetto primo delie religioni Cabiriche, benchè in bassi tempi, per sola similitudine di poteri generativi, si dicesse esser Cerere, Pale e la Fortuna4? Tutto quello che spiega oggidì, a senno degli interpreti, la critica simbolica moderna è insufficiente: anzi, a parlar sincero, è l’arte loro di sì pieghevole natura, come palesa con evidenza un’opera grande di simile argomento, che nelle mani degli spositori il modo interpretativo si confà bene ad ogni misura qualunque e ad ogni forma: se più presto una spiegazione congetturale non ista in pronto a ciascuno per ogni proposta o controversia che siasi, o per qualsivoglia quistione5. Con tutto questo un solo vero traluce nel

  1. Macrob. l. c.; Serv. vii. 607.
  2. Varro in xiv. rer. divin. ap. J. Lyd. de Mens. p. 146. Immagine che vedesi figurata nelle medaglie di Volterra.
  3. Ianus... cum Camese atque indigena terram hanc ita participata potentia possidebant. Protarch. Trall. ap. Macrob. Sat. i. 7.; Varro l. l. iv. 10.; Demophil. ap. J. Lyd. de Mens. p. 150.
  4. Tusci penates Cererem et Palem, et Fortunam dicunt. Serv. ii. 325.
  5. Intendo mentovare col dovuto onore l’opera magistrale