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La bandiera 115

forse migliori. Ciò forse avevano voluto significare a Garibaldi, mentre egli dolente era passato pei porti del Pacifico: ed egli ora in quell’angusta valletta siciliana, tra gente nata e tenuta nell’ignoranza dell’esistenza d’un’Italia, sventolava quella bandiera e gettava le sorti della nazione.

Fatto un altro po’ di cammino, la colonna giungeva a Vita, piccolo borgo, case rustiche, molte catapecchie, una chiesa. Parecchi di quelli che posarono l’occhio su quella chiesa, non immaginarono di certo che la sera di quel giorno vi sarebbero stati portati dentro feriti, a patire, a veder morire, a morire. Faceva brutto senso veder la gente di quel borgo fuggire a gruppi, a famiglie intere, trascinare i vecchi e pigliare i monti, carica di masserizie, mandando lamenti. Pareva che fuggisse a un’invasione di barbari. Ma quella gente sapeva cosa c’era là vicino e ricordava eccidii recenti. La colonna traversò il borgo, e poco distante fece alto.

Passò Garibaldi frettoloso; domandò se le Compagnie avessero mangiato; se no, mangiassero pure. Ma che cosa? Senza scomporre troppo gli ordini, e anche ridendo giocondamente, chi volle si adagiò, e si misero tutti a sbocconcellare il loro pane: molti sbrancarono alquanto in certi piccoli campi di fave lì ai lati della via, e con quel companatico fecero il loro pasto.

Allora furono viste alcune Guide tornar trottando per lo stradale che si stendeva innanzi. Tra quelle il sessagenario Alessandro Fasola pareva ringiovanito. Poi fu un correre di cavalli dal luogo dove stava Garibaldi alle Compagnie, e subito s’udirono due squilli di tromba. Tutti a posto e via come stormi, pigliarono quasi a volo