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Giorni pericolosi 5

l’unità non pareva ancora possibile. L’idea sua era sempre di dar assetto al nuovo regno; promuoversi tutte le libertà; svolgerne le forze già così rigogliose e omogenee; farlo ricco, colto, solcarlo di strade ferrate e di canali; dotarlo di ogni sorta di opere pubbliche; farne insomma il Belgio in grande dell’Europa meridionale. Così, intanto gli Italiani dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie, avrebbero sentito e desiderato la prosperità dello Stato settentrionale anche per sè; e forse, prima che passasse un decennio, si sarebbero mossi spontaneamente per unirsi a goderla. Egli aveva allora appena cinquant’anni, e poteva ripromettersi di vivere ancora tanto da guidare quel movimento.

Senonchè Mazzini sin dal 2 marzo aveva scritto: «Non si tratta più di repubblica o di monarchia, si tratta di unità nazionale; d’essere o non essere. Se l’Italia vuole essere monarchica sotto la Casa di Savoia, sia pure: se dopo la riscossa vuol acclamare liberatori e non so che altro il Re e Cavour, sia pure. Ciò che ora vogliamo è che l’Italia si faccia.» Il gesto era preciso, diritto; Sicilia, Napoli, Roma tutto doveva venire nell’unità nazionale: per Mazzini, pel suo partito, che era anche fatto di uomini di guerra, l’ora era buona; o coglierla, quali che si fossero i pericoli, o non vederla tornar mai più. Egli fin dal 1856 aveva rivolta la sua azione al Mezzodì per far procedere di laggiù in su la propaganda rivoluzionaria: nel ’57, per tentarvi una rivoluzione, d’intesa con lui era andato a morir colà Pisacane: nel ’59, temendo che la pace di Villafranca e le sue conseguenze portassero a far guarentire dall’Europa l’intangibilità delle Due Sicilie, egli Mazzini, aveva mandato Crispi