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LIBRO OTTAVO — 1815. 183

dall’impresa; consiglio amichevole come che di nemico, avendo così comandato al Carabelli il governo di Napoli che misurava i pericoli di quella impresa. Quegli dunque riferì di Gioacchino il proponimento, le speranze, gli apparecchi e le mosse, ma il governo nulla faceva in difesa, ignorando il luogo del disegnato sbarco e temendo divolgare i pensieri di Gioacchino pel regno, dov’erano molti ed audaci i suoi partigiani, pochi e deboli i borbonici, e già mancate le speranze che il ritorno dell’antico re avea suscitate ne’ creduli ed inesperti.

Per sei dì l’armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre giorni; due legni, l’uno de’ quali tenea Gioacchino, erravano nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocchè quelle armi non assai potenti al successo, nè così deboli da restar subito oppresse, bastavano a versare nel regno discordie civili, tirannide e lutto. L’animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi disperato ed audace stabilì di approdare al Pizzo per muovere con ventotto seguaci alla conquista di un regno.

XIV. Era l’8 d’ottobre, di festivo, e le milizie urbane stavano schierate ad esercizio nella piazza, quando giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i suoi gridarono: «Viva il re Murat.» Alla voce rimasero muti i circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità della impresa. Murat, viste le fredde accoglienze accelerò i passi verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch’egli sperava amica non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano Trentacapilli ed un agente del duca dell’Infantado, devoti ai Borboni, questi per genio e quegli per antichi ed atroci servigi, uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e scaricano sopra di lui archibugiate. Egli si arresta e non coll’armi, co’ saluti risponde. Crebbe per la impunità l’animo a’ vili; tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si dispongono gli altri a combattere; ma Gioacchino lo vieta, e col cenno e col braccio lo impedisce.

Ingrossando le nemiche torme, ingomberato d’esse il terreno, chiusa la strada, non offre campo che il mare, ma balze alpestri si frappongono; eppure Gioacchino vi si precipita, ed arrivando al lido vede la sua barca veleggiare da lunge. Ad alta voce chiama Barbarà (era il nome del condottiero), ma quegli l’ode e più fugge per far guadagno delle ricche sue spoglie. Ladro ed ingrato: Gioacchino, regnando, lo aveva tratto della infamia di corsaro, e benchè Maltese ammesso nella sua marina e sollevato in breve spazio a capitano di fregata, cavaliere e barone. Gioacchino, disperato di quel soccorso, vuole tirare in mare piccolo naviglio che è sulla spiaggia,