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LIBRO NONO — 1821. 267

lo vuole, vi apparecchierete alla guerra.» A’ quali benevoli concetti Ascoli pianse, lodò il re, gli baciò la mano e partì. Funeste lodi per lui e funesto pianto, perciocchè il re lo sospettò propenso a libertà, e tornando da Laybach, stando ancora in Roma, decretò l’esilio del suo amico.

Il vascello ristaurato, e secondato da’ venti e da voti, dopo due giorni salpò. Ma l’ira del popolo, fervente ancora per lo tentato rivolgimento del 7 dicembre, incolpava i ministri, minacciava le guardie, perchè gli uni proponitori, le altre sostenitrici del messaggio. Il general Filangeri capo di quelle, fece pubblica dimanda di esser dimesso dall’esercito, giacchè senza fallo e con dolore vedeva i suoi servigi sgraditi o sospetti. Ma il reggente non aderì; il popolo commendò la modestia del generale, che, già grato per la sua fama di guerra e per la onorata memoria del padre, crebbe in grazia della moltitudine. Si disse della guardia ch’era suo debito custodire il re ne’ tumulti, e fu ammirata. Ammontando tutti gli sdegni sopra i ministri, furono aspramente accusati nel parlamento, e minacciati di pene gravissime; ma poco appresso, quattro assoluti, poi tutti. Frattanto per loro inchiesta erano già dimessi, ed il re innanzi di partire aveva nominato in lor vece il duca del Gallo, il duca Carignano, il magistrato Troyse, il general Parisi e ‘l marchese Auletta, tulti di grave età e venerati.

XXVII. Si trattavano in Laybach le sorti di Napoli: erano in Napoli rallentati, per le credute promesse del re, gli apparecchi di guerra; il parlamento al finir di gennajo fu sciolto; la carboneria, diretta e scommossa da secreti agenti del governo, non operava; l’indole del ministero era pacifica e muta, vacuo di cure appariva il regno. Ma non così l’Italia: questa sciaurata che ha libero il pensiero e la lingua, servo il cuore, pigro il braccio, in ogni politico evento scandalo non forza, allor che intese le prime fortunate mosse di Napoli si agitò, ed al crescer della rivoluzione, ed alla vantata felicità dei successi, il Piemonte preparavasi a soccorrergli; gli stati di Roma ed altri minori alcun’opera compivano se a loro sostegno fossero uscite schiere napoletane o editti. Ma il governo dichiarò che, contento di sè, non mirava gli altri stati, e che il miglioramento delle sue costituzioni dipendendo dal voto unanime del popolo e dall’assentimento spontaneo del re, disdegnava le pratiche usate delle rivoluzioni. Citava in prova i fatti di Pontecorvo e Benevento, due città del pontefice nel seno del regno, che ribellatesi e presa la costituzione di Spagna, chiesero d’incorporarsi al reame di Napoli; rifiutate, pretesero di confederarsi, offerendo danari, armi, e combattenti; rifiutate di nuovo, pregarono di essere protette. Il governo di Napoli rispondeva non poter trattare le cose degli stati romani che solamente col sovrano pontefice. Inutile, o forse