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156 della lega lombarda


Andavano intanto imperiali ministri per le città italiane insaccando pecunia, sciogliendo il reggimento comunale, e ponendo in ufficio i Podestà tedeschi. Nelle città che tenevano le parti cesaree, le cose si piegavano senza sforzo, ma quelle che non volevano sapere d’Imperadori tedeschi, era un’affare ben difficile far loro sentire sul collo il giogo di Cesare. Tra queste Milano. Gli animi in questa città erano oltremodo inaspriti per la impudenza con cui Barbarossa aveva rotti i patti giurati, allorchè gli si arresero; ed erano in grande apprensione del loro avvenire dopo il convento di Roncaglia. Tuttavolta gli spiriti si tenevano lontanissimi dall’inchinarsi a Federigo e dal prostituirgli la patria. Giungevano nelle loro mura Rainaldo Arcivescovo di Colonia, ed Ottone Conte Palatino. Venivano deputati da Barbarossa a togliere quello scandalo della loro Repubblica, a lasciarli in compagnia di qualche Podestà, con cui non potevano pure tener consorzio di parola. Furono invero decentemente accolti, ed ospitati nel monastero di S. Ambrogio. Ma come esposero ai rettori della città la ragione del loro avvento, e la volontà di Federigo, che si lasciassero aggiogare, si gittarono in mezzo al popolo tre nobilissimi cittadini Azzio Baltrasio, Castellino Ermenolfo e Martino Malopera, e con parole di fuoco lo sollevarono a difendere l’inestimabile tesoro della libertà. Per cui un repentino gridare di tutto il popolo contro allo straniero maestrato che veniva, ed un accorrere a furia contro i due Legati per levarli di vita. Furono questi ben fortunati di camparla, abbarrando a tempo gli usci del monastero. Se ne andarono poi assai scontenti; e specialmente l’Arcivescovo fu così preso da interno desiderio di vendetta, che da quel dì la più grata idea, che vagheggiasse, fu l’esterminio finale di quella riluttante città. Federigo seppe tutto, e nulla potè fare: diè le viste di non curarsene, e tacque: così dice Morena1. Ma se-

  1. Otto Morena p. 1023. = Itaque cum et utrique ad Imperatorem rediissent, et quid eis acciderat renuntiantes, Imperator quasi vilipen-