Pagina:Storia della decadenza dei costumi delle scienze e della lingua dei romani II.djvu/83

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vizj con ogni mezzo della più vaga, e fiorita oratoria. L’abitudine d’esporre tutta quanta la filosofia in un seguito di declamazioni era già in voga fra gli antichi Sofisti Greci, rinacque in Grecia dopo la caduta della libertà, e si dilàtò poscia sotto il governo dei Romani Imperatori in tutte le Sette, e persino in quelle che già si erano fatte conoscere nemiche dichiarate di ogni sorta di parlare e di scrivere con eleganza, ed affettazione. I studiati parolai, che davansi il nome di filosofi non volevano già istruire, e correggere, ma unicamente figurare, e sorprendere. Essi non cercavano già di piacere ai Saggi ma alla volgar moltitudine, motivo per cui il loro discorso romoreggiava come un rapido torrente di altituonanti parole ad oggetto di scuotere soltanto le orecchie, e la fantasia degli uditori. Seneca, che come scrittore procurava sempre di comparir alquanto diverso, da ciò ch’egli era realmente, e che biasimava col maggior calore quei difetti medesimi a cui maggiormente inclinava, ci avverte in molti luoghi delle sue lettere a guardarci da questi apparenti Dotti i quali si vendevano come Istrioni, e deturpavano la venerabil Dea della sapienza col falso ornamento, e col belletto di una disonorata virtuosa di ballo.1. Sif-

  1. Epist. 40. Hæc popularis nihil habet veri. Movere