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Parte III. Libro II. 153

di sentimenti e di storie Greche ornò e sparse; e molte cose bene e acconciamente dal Greco traslatò in latino. Così Plutarco, il quale a questo luogo nulla dice a ribattere questo comun sentimento de’ più antichi Scrittori, benché nella stessa Vita ad altra occasione narri ciò, che di sopra si è riferito. La tardanza di Catone nell’applicarsi alla Greca letteratura ci mostra chiaramente, ch’egli ne era nimico, non già per aversione agli studj, ma per una cotal Romana alterigia, che sdegnava di comparir bisognosa de’ soccorsi altrui, e che mirava singolarmente di mal occhio i Greci, rivali, in ciò che a lettere appartiene, troppo fastidiosi a’ Romani. Questo medesimo più apertamente ancor si raccoglie da’ discorsi, che Plutarco racconta, ch’egli era solito a tenere su tale argomento; perciocché diceva egli, che Socrate era stato un uom loquace e violento, il quale con novità perniciose sconvolta avea la patria; che Isocrate facendo invecchiare i discepoli nella sua scuola rendevali solo opportuni a trattare le cause ne’ campi Elisj; e innoltre veggendo suo figlio agli studj Greci inclinato assai, soleva con grave e severa voce, quasi profetando, ripetere, che i Romani allora perduto avrebbon l’impero, quando alle lettere Greche si fosser rivolti. I Medici Greci ancora, che cominciavano, come poscia vedremo, a venirsene a Roma, aveva egli in orrore; poiché diceva aver essi conceputo il perverso disegno di toglier dal mondo sotto pretesto di medicina i barbari tutti, col qual nome comprendevano essi anche i Romani. Onde nascesse questo implacabil odio di Catone contro de’ Greci, e singolarmente contro de’ Filosofi, non è difficil cosa a vedere. Osservava egli la Grecia divisa allora in tanti partiti, quante eran le sette de’ Filosofi, che vi regnavano, Stoici, Platonici, Epicurei, Peripatetici, tutti di massime, di sentimenti diversi, disputar gli uni contro degli altri, e nelle loro dispute cercare di far pompa d’ingegno, non di scoprire il vero; e frattanto lo stato politico della Grecia andare in rovina, ed essere omai fatto schiavo quel popolo, che prima della sorte di tante provincie era arbitro e signore. Temeva egli dunque, che, se queste Filosofiche sette si fossero introdotte in Roma, seco ne recassero ancora i funesti effetti, che prodotto aveano in Grecia. L’eloquenza di Carneade singolarmente doveva parergli pericolosa, e l’avvezzarsi i Romani a imitazione di lui a parlare in lode ugualmente che in biasimo di qualunque più pregevol virtù, dovea