Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/435

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tempi costretto, Eroi dipinse a cui fu campo il letto, sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i mediocri con l’audacia, la ciarlataneria, l’intrigo e la bassezza, ora addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a’ tempi di Federigo o di Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara, e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo facile a imparare, che teneva luogo d’ispirazione, e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini è pieno quel secolo, se si dee stare a’ giudizii de’ contemporanei. Francesco Arsilli nella sua elegia, De poetis urbanis, ti dà la lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone X, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati. Bernardo Tasso, il Rucellai, l’Alamanni, il Giovio, lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d’uomini che oggi nessuno più legge. Pure ne’ più, anche ne’ mediocrissimi, era viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale era il Giovio e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso, ma quando prendevano la penna c’era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.

Quest’era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta. La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa del movimento, ond’era uscito, che ora si rivelava con tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnato con la diffusione della coltura, il progresso delle forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe