Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/234

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Lungi dai fasti ambizïosi e vani,
     Mi è scettro il mio baston, porpora il vello,
     Ambrosia il latte, a cui le proprie mani
     Servon di coppa, e nettare il ruscello,
     Son ministri i bifolchi, amici i cani,
     Sergente il toro e cortigian l’agnello,
     Musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
     Piume l’erbette, e padiglion le fronde.
     

Queste lambiccature e finezze di spirito egli le chiama in una sua lettera a Claudio Achillini ricchezze di concetti preziosi, e ivi pone l’eccellenza della poesia:


     È del poeta il fin la maraviglia:
     Parlo dell’eccellente e non del goffo;
     Chi non sa far stupir, vada alla striglia.
     

La novità e la maraviglia non è nel repertorio, che è vecchissimo, un rimpasto di elementi e motivi per lungo uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a nuovo, è lo scenario, o lo spettacolo, vecchio anch’esso, ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene non dalla sua intima personalità più profondamente esplorata o sentita, ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate da simiglianze o dissonanze accidentali, e perciò tendenti al paradosso e all’assurdo: di che nasce quello stupore in che il Marino pone il principale effetto della poesia. Nè queste combinazioni artificiali sono solo intorno alle cose, come giardini, campi, fiori, ma anche intorno alle persone allegoriche, come la gelosia, l’amore, e intorno agli atti, come il riso, il bacio. Il Marino confessa di avere innanzi un zibaldone dove avea scritto per ordine di materia quello che di più piccante e maraviglioso avea trovato ne’ poeti greci, latini e italiani e anche spagnuoli; e ammassa e concentra tutti quei tesori di concetti preziosi in un punto solo. Ma non è un freddo imitatore e raccoglitore. La sua immaginazione si avviva