Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/236

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solano sotto velo di sagrestia, il luogo comune sotto ostentazione di originalità, la frivolezza sotto forme pompose e solenni, l’inezia collegata con l’assurdo e il paradosso, la vista delle cose superficiale e leggiera, la superficie isolata dal fondo e alterata con relazioni artificiali, la parola isolata dall’idea e divenuta vacua sonorità, questi sono i caratteri comuni a tutt’i poeti della decadenza, messa la differenza degl’ingegni.

Questi caratteri sono più o meno comuni a tutte le forme dello scrivere, tragedie, commedie, poemi, idillii, canzoni, discorsi, prefazioni, descrizioni, narrazioni, orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.

Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra scrittura, copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante, credè di poter dir tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l’uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica dell’espressione. Tratta la lingua italiana, come greco o latino, come lingua morta, già fissata, e da lui pienamente posseduta. Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si può. Fugge le smancerie toscane, e ricorda la risposta fatta a certi messi toscaneggianti, che domandavano